domenica 4 novembre 2012

Candele, candelotti e sei lumini….


 
Napoli è la città del sole, la città dell’allegria, del folklore e di tante altre amenità che non stiamo qui ad elencarvi per paura di finire in un quadretto con pizza, camorra e mandolino. Da queste parti non si può parlare di morte, è un argomento tabù al pari dell’ultima sconfitta del Napoli, un discorso da cui sfuggire con tutte le proprie forze, la principale causa di orchite di tutta la provincia. Tuttavia, quando alla fine subentra, se ne celebra la grandezza in ogni maniera. Ovviamente, nel trionfo del trapasso, l’impronta partenopea non può mancare, sotto forma di quella cifra stilistica sobria e misurata che lo contraddistingue, quella pennellata di pochi millimetri, piccola e discreta, che rovina un quadro di 25 metri quadrati. Ecco che allora, affianco a poetici manifesti mortuari con epitaffi scritti con la mano sinistra da un ubriaco, proliferano sontuose cappelle cimiteriali in stile tardogotico-nazionalpopolar-futurista il cui proprietario, ancora in vita, rivaleggia in sanguinose competizioni coi colleghi di pari grado, combattendo con la stessa foga che si utilizzava alla scuole medie per primeggiare quanto a dimensioni del pisello. In una sorta di morra cinese in salsa funebre, i due proprietari si sfidano con colpi proibiti ed a sorpresa: una statua del santo patrono batte il puttino, ma se il puttino è dorato vince, battendo anche il vaso di ceramica di Capodimonte, che sconfigge i vasetti di plastica, ma soccombe alla fioriera in ferro intarsiato, che viene battuta a sua volta da un ritratto giovanile del defunto (possibilmente più magro del reale), il quale perde con la bandiera del Napoli issata sul pennone, ma batte il lampadario in cristallo di Torrescazzetta appeso al centro della stanza. Preambolo alla sepoltura in una bara con serigrafato il golfo di Napoli ripreso da Via Petrarca è il funerale. Alle scene isteriche delle parenti del defunto, che si dibattono disperate coprendo coi loro urli persino le sirene della contraerea, fanno da contraltare i ridolini di chi chiude il corteo inciuciando a colpi di pagaia, cercando con un kayak di non soccombere al tipico fiume di lacrime in piena. Particolarmente apprezzata è la carrozza funebre, specie se dotata di cavalli (rigorosamente a coppie, più ne sono e più è alto il rango del defunto), meglio ancora se ammaestrati ed in grado di compiere evoluzioni coordinate sbattendo gli zoccoli a terra per richiamare l’attenzione di chiunque si trovi nei paraggi dell’evento. Nei migliori vasci dell’antica Partenope, ancora oggi si trovano dei veri e propri tempietti votivi, di solito allocati vicino ad uno specchio (chissà perché), generalmente nelle camere da letto patronali, dove dei finti lumini acquistati a prezzi modici su QVC, illuminano con luce sinistra delle foto ormai scolorite di parenti forse mai conosciuti (e forse mai morti), amici, conoscenti ed ogni altra persona di cui sia stato possibile reperire un’immaginetta ricordo, di quelle che vengono definite “figurelle”. Le figurelle costituiscono l’oggetto della variante femminile della morra cinese di cui sopra, diventano materia di collezioni ossessive da parte delle più rinomate capere, che si sfidano a colpi di “ce l’ho, ce l’ho, mi manca”. In questa sanguinosa guerra, i reciproci parenti, essendo di facile reperibilità per gli sfidanti, non hanno grande valore, ma sono la principale causa di strascini fra le contendenti, impelagate di solito in polemiche di natura dinastica, generate dal fatto che a Napoli si tendono a considerare parenti i tre quarti della popolazione locale. Tra i non parenti, contano molto i negozianti della zona, in particolare macellai e salumieri e non vi dico se nel quartiere c’è un gioielliere o, meglio ancora, un pluripregiudicato. L’età del morto è inversamente proporzionale al valore della figurella: più giovane è il defunto, più pregiata ne è l’immagine, ma non vale l’utilizzo di foto vecchie di 35 anni o ritoccate, né il fatto che il morto dichiarasse un’età inferiore a quella reale. 
La catarsi del culto della morte raggiunge il suo acme mistico e grottesco nel misconosciuto cimitero delle fontanelle. Un gigantesco ossario che riunisce morti senza nome della peste, del colera e di varie follie dei secoli scorsi. Nonostante il posto sia spaventoso e terribile, altro che cimitero indiano, è stato oggetto di venerazione ossessiva. Le anime senza pace dell'ossario venivano allettate da "pie" donne con lumini, preghiere ed una sistemazione consona del teschio (tipo dentro una teca). In cambio il morto doveva concedere in sogno i tanto agognati numeri del lotto, la fertilità ed eventualmente un marito decente. A giudicare dal numero di teche, pare che i teschi fossero degli insospettabili brillanti ruffiani. 
Si sa che il fedele necessita di una segnale per rendersi conto che il miracolo è stato accordato. Se il rogo sacro, l'estasi divina, lo scioglimento del sangue od il classico raggio di sole possono esser per i santi canonici manifestazioni adeguate, le anime del purgatorio non potevano permettersi niente di così appariscente. Opaca lucentezza dei teschi o qualche brina di disgustoso sudore pare sia il massimo concesso. Insomma se il teschio suda o è innaturalmente lucido il matrimonio desiderato è cosa fatta. Potete anche smetterla con la ceretta.
Non è dato sapere qual era il destino riservato ai teschi avari di miracoli o che riuscivano ad arruffianarsi solo mariti fedigrafi o provvisti di suocere scassambrelle. A giudicare dalle macabre leggende che aleggiano, ci sentiamo di escludere che i teschi fossero fisicamente danneggiati. Pena ritrovarseli tutti come invitati al matrimonio con aumenti di spese da infarto. Nonostante ciò riteniamo credibile che i fedeli traditi optassero per le più nefande ed irriferibili iastemme.  
Come prevedibile, anche negli insulti la morte ha il suo ruolo importante. Dire “all’anema e chi t’è mmuorto” a qualcuno, vuol dire offenderne la stirpe non più sulla terra e dare probabilmente il via ad una rissa da antologia, ma a volte non è sufficiente ad esprimere il disprezzo e l’odio che si prova verso di lui. Ecco così comparire i rafforzativi “morti ‘e chi t’è mmuorto”, che offende risalendo nel tempo gli avi dei vostri antenati, oppure “sangue e chi v’è mmuorto”, che ne mette in seria discussione le qualità organiche o ancora “chi t’è stramuorto”, che conferisce consistenza extra al decesso. Ma, così come i guerrieri concedono l’onore delle armi ai loro nemici sconfitti, anche lo jastemmatore riconosce in qualche modo il valore della stirpe dello jastemmato, precisando che le sue interiezioni sono dirette esclusivamente ai migliori elementi della famiglia, quelli veramente degni di nota. Perciò, quando vi diranno “E megli muorti e chi t’è stramuorto”, prima di sfoderare il machete e colpire a morte il vostro avversario, per un attimo commuovetevi ripensando ai vostri avi che, con la loro chiara ed imperitura fama, vi hanno concesso l’onore di poter essere selezionati per insultarvi meglio.

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