La leggenda narra dei riti voodoo di Ferlanio e Juliano che schiattavano il bambolotto Diego dentro una fetta di casatiello. Sfogliatelle, parmigiane e mozzarelle assicurarono Careca, Alemao, Zola, Fonseca e qualche colpo minore, ma sempre ben assestato. Con l’apertura delle frontiere, anche sotto il Vesuvio la situazione degenerò, complice una società alla deriva. Arrivarono così innumerevoli calciatori o sedicenti tali, molti dei quali stranieri, che ingurgitarono tonnellate di pizza lasciando i tifosi napoletani a desinare con il loro stesso fegato. Fra i primi, forse più meteora che bidone, menzion d’onore per Freddy Eusebio Rincon (il cui banale soprannome la vostra fantasia malata ha sicuramente già immaginato), fresco reduce dalla fallimentare spedizione colombiana ai mondiali, ricordato per i suoi errori clamorosi sottoporta, per la sua inimitabile capacità di dribblare se stesso. Ciononostante, il sudamericano riuscì ad insaccare la porta ben 7 volte (li mortè!) nell’unica stagione passata da queste parti, al punto che il vero colpo alla fine lo fece il Napoli, rivendendo il nostro eroe addirittura al Real Madrid. Pare che anche in quell'occasione ficcarlo in un cartone con la scritta Sony abbia funzionato. Un paio d'anni dopo, il Napoli andò a pescare due perle direttamente in Brasile: Beto e Caio. Evidentemente arrivarono ancora ricoperte delle loro goffa ostrica. Sorvolando sul primo, che forse non ebbe modo di esprimersi al massimo, ci piace soffermarci sul secondo: conosciuto anche come “O doutorinho”, ossia “il dottorino”, per il suo vestire elegante, Caio era capitato in Italia grazie ad uno di quei contrattoni pluriennali e multimiliardari che il geniale Moratti proponeva a chiunque toccasse un pallone in sua presenza. Dopo una stagione al limite del ridicolo all’ombra della Madunina, il Napoli pensò bene di farsene carico per un’altra annata, che lo consegna alla storia ed alla scienza come prova vivente dell'esistenza di un brasiliano intollerante alla rete, dato che riusci nell'impresa di non insaccarla neanche una volta durante la sua permanenza. Tornato a pedate nelle terga in patria, vagabondò fra il Brasile e la serie C tedesca fino a riciclarsi come modello fuori tempo massimo, a 30 anni. Gli anni successivi, fra retrocessioni e assetti societari sempre più traballanti, regalarono altri geni del calcio al Napoli. Il buon José Luis Calderon venne acquistato come fenomeno assoluto (“Il nuovo Batistuta!” titolava la Gazzetta senza specificare che si stava disquisendo del notissimo Ernesto Batistuta, ambiguo macellaio venezuelano di Piazza Carita'), ma fu rispedito infiocchettato al mittente dopo solo 4 mesi. Da par suo, si segnalò l’indomito William Prunier. Virgulto delle giovanili dell'Auxerre, che diede nomi celebri quali Eric Cantona e Basile Boli alla storia, si segnalò come grande talento, ma evidentemente nel ruolo di massaggiatore. Terzino dal passo claudicante e dall’aspetto di un 45enne, William riuscì a farsi un anno intero di vacanza tra le bellezze del golfo, brillando in quella che era la sua vera specialità, ossia rivendersi come campione a club blasonati, visto che in curriculum può vantare anche Olympique Marsiglia, Bordeaux e addirittura Manchester United! Nel frattempo, Pedros ci veniva prestato dal Parma e restituito come nuovo dopo pochi giorni, la Juve ci mollava il fenomeno Zamboni, che ancora oggi viene ricordato nelle più turpi bestemmie per un clamoroso liscio che propiziò un gol del Lecce ed un Giannini già in pensione veniva ripescato dal campionato svizzero di calcio a 5 per volontà del presto fuggitivo Mazzone. Passata la tempesta, il Napoli tentò la risalita affidandosi al blocco argentino formato da Bordi e Galletti (tredici presenze e due gol in due) per piazzare poi il profeta Zeman in panca, esiliandolo dopo aver raccolto solo 2 punti in 6 partite, e giocare la carta Edmundo, turbolento attaccante brasiliano con una fedina penale da far impallidire i rivali da San Giovanni a Teduccio fino a Coroglio, che sprofondò col Napoli in serie B regalando solo qualche gol intervallato da infortuni vari. Sugli anni in serie B ed in serie C non ci sentiamo di infierire più di tanto, vista la situazione societaria, ma vogliamo comunque ricordare un eroe dimenticato dai più: il mitico Marco Quadrini, che arrivò a Napoli a 22 anni con solo 17 partite giocate da professionista, se ne andò a 25 senza nemmeno riuscire a raddoppiare il bottino e lasciò il calcio a 27 per quello che oseremmo definire una crisi di rigetto. Senza contratto. Degli anni del presidente De Laurentiis restano tanti acquisti discutibili, molti forse avrebbero meritato di più, altri sono quasi incomprensibili, come il misterioso Chavez, sulla cui reale esistenza ancora si dibatte accesamente, l’impenetrabile Hoffer, l’insondabile italo-svede-rumeno Dumitru e il tapiro Vargas, eroe per una notte e brocco clamoroso per il resto dell’anno. Tuttavia, la palma del migliore (?) bidone dell’ultimo decennio va a lui: José Ernesto Sosa. Faccia da scolaretto sul sei-sei e mezzo, tatuaggio sul collo da giovanotto del supermercato, il nostro eroe si presentò come “principito” sulla scorta di tre anni passati al Bayern di Monaco e la nomea di talento incompreso, che ben presto mutò in comprensibilissima fregatura. Trentuno presenze tra campionato e coppe, decine di sontuose dormite sulla linea mediana ed un solo gol, segnato quasi per caso e festeggiato con un’espressione incredula, manco fosse stato il figlio di don Mimì ‘o pizzajuolo dopo aver risolto di tacco la sanguinosa sfida contro i rivali della trattoria “Add’o fetente”. Trasformato prontamente da “principito” in “uallarito”, fu aiutato dalla protezione civile a fare le valigie verso lidi meno esigenti con i trequartisti narcolettici dell’emisfero australe. Detto ciò, restiamo comunque fiduciosi nel mercatino di riparazione e nelle sorprese che potranno riservarci i nuovi arrivati, mentre, nel frattempo, ci consoliamo con la partenza di Aronica, nella speranza che Aurelione nostro non ci riservi le mirabilie di cui in precedenza, altrimenti quella cosa tricolore che non si può nominare, nun ‘a verimmo cchiù manco c’o cannocchiale! Perciò presidè, stammoce accorti!
martedì 8 gennaio 2013
Presidè, stammoce accorti!
Come molti di voi sapranno, si avvicina il momento della
riapertura dei mercati. No, non parliamo degli agognati saldi né di chissà
quali congiunture economiche, parliamo molto più semplicemente di
Calciomercato. Anzi, di quello che una volta veniva definito “mercatino di
riparazione”. Quanti presidenti, allenatori e giocatori hanno salvato la loro
stagione (e spesso anche il loro posto di lavoro) indovinando un acquisto in
seconda battuta? E quanti altri invece si sono dovuti impiccare con i lacci degli scarpini di bidoni clamorosi, buoni solo a scaldare panchine, provvisti di menischi fragili come grissini, neanche capaci d'ingravidare qualche autoctona? Negli anni ’80, proprio mentre luminose meteore e indicibili scarzoni si alternavano sotto le insegne
delle squadra italiane, il Napoli ha piazzato il colpo del K.O., quello che
sostanzialmente salva almeno 50 anni di mala gestione e lascia un segno
indelebile: Maradona.
La leggenda narra dei riti voodoo di Ferlanio e Juliano che schiattavano il bambolotto Diego dentro una fetta di casatiello. Sfogliatelle, parmigiane e mozzarelle assicurarono Careca, Alemao, Zola, Fonseca e qualche colpo minore, ma sempre ben assestato. Con l’apertura delle frontiere, anche sotto il Vesuvio la situazione degenerò, complice una società alla deriva. Arrivarono così innumerevoli calciatori o sedicenti tali, molti dei quali stranieri, che ingurgitarono tonnellate di pizza lasciando i tifosi napoletani a desinare con il loro stesso fegato. Fra i primi, forse più meteora che bidone, menzion d’onore per Freddy Eusebio Rincon (il cui banale soprannome la vostra fantasia malata ha sicuramente già immaginato), fresco reduce dalla fallimentare spedizione colombiana ai mondiali, ricordato per i suoi errori clamorosi sottoporta, per la sua inimitabile capacità di dribblare se stesso. Ciononostante, il sudamericano riuscì ad insaccare la porta ben 7 volte (li mortè!) nell’unica stagione passata da queste parti, al punto che il vero colpo alla fine lo fece il Napoli, rivendendo il nostro eroe addirittura al Real Madrid. Pare che anche in quell'occasione ficcarlo in un cartone con la scritta Sony abbia funzionato. Un paio d'anni dopo, il Napoli andò a pescare due perle direttamente in Brasile: Beto e Caio. Evidentemente arrivarono ancora ricoperte delle loro goffa ostrica. Sorvolando sul primo, che forse non ebbe modo di esprimersi al massimo, ci piace soffermarci sul secondo: conosciuto anche come “O doutorinho”, ossia “il dottorino”, per il suo vestire elegante, Caio era capitato in Italia grazie ad uno di quei contrattoni pluriennali e multimiliardari che il geniale Moratti proponeva a chiunque toccasse un pallone in sua presenza. Dopo una stagione al limite del ridicolo all’ombra della Madunina, il Napoli pensò bene di farsene carico per un’altra annata, che lo consegna alla storia ed alla scienza come prova vivente dell'esistenza di un brasiliano intollerante alla rete, dato che riusci nell'impresa di non insaccarla neanche una volta durante la sua permanenza. Tornato a pedate nelle terga in patria, vagabondò fra il Brasile e la serie C tedesca fino a riciclarsi come modello fuori tempo massimo, a 30 anni. Gli anni successivi, fra retrocessioni e assetti societari sempre più traballanti, regalarono altri geni del calcio al Napoli. Il buon José Luis Calderon venne acquistato come fenomeno assoluto (“Il nuovo Batistuta!” titolava la Gazzetta senza specificare che si stava disquisendo del notissimo Ernesto Batistuta, ambiguo macellaio venezuelano di Piazza Carita'), ma fu rispedito infiocchettato al mittente dopo solo 4 mesi. Da par suo, si segnalò l’indomito William Prunier. Virgulto delle giovanili dell'Auxerre, che diede nomi celebri quali Eric Cantona e Basile Boli alla storia, si segnalò come grande talento, ma evidentemente nel ruolo di massaggiatore. Terzino dal passo claudicante e dall’aspetto di un 45enne, William riuscì a farsi un anno intero di vacanza tra le bellezze del golfo, brillando in quella che era la sua vera specialità, ossia rivendersi come campione a club blasonati, visto che in curriculum può vantare anche Olympique Marsiglia, Bordeaux e addirittura Manchester United! Nel frattempo, Pedros ci veniva prestato dal Parma e restituito come nuovo dopo pochi giorni, la Juve ci mollava il fenomeno Zamboni, che ancora oggi viene ricordato nelle più turpi bestemmie per un clamoroso liscio che propiziò un gol del Lecce ed un Giannini già in pensione veniva ripescato dal campionato svizzero di calcio a 5 per volontà del presto fuggitivo Mazzone. Passata la tempesta, il Napoli tentò la risalita affidandosi al blocco argentino formato da Bordi e Galletti (tredici presenze e due gol in due) per piazzare poi il profeta Zeman in panca, esiliandolo dopo aver raccolto solo 2 punti in 6 partite, e giocare la carta Edmundo, turbolento attaccante brasiliano con una fedina penale da far impallidire i rivali da San Giovanni a Teduccio fino a Coroglio, che sprofondò col Napoli in serie B regalando solo qualche gol intervallato da infortuni vari. Sugli anni in serie B ed in serie C non ci sentiamo di infierire più di tanto, vista la situazione societaria, ma vogliamo comunque ricordare un eroe dimenticato dai più: il mitico Marco Quadrini, che arrivò a Napoli a 22 anni con solo 17 partite giocate da professionista, se ne andò a 25 senza nemmeno riuscire a raddoppiare il bottino e lasciò il calcio a 27 per quello che oseremmo definire una crisi di rigetto. Senza contratto. Degli anni del presidente De Laurentiis restano tanti acquisti discutibili, molti forse avrebbero meritato di più, altri sono quasi incomprensibili, come il misterioso Chavez, sulla cui reale esistenza ancora si dibatte accesamente, l’impenetrabile Hoffer, l’insondabile italo-svede-rumeno Dumitru e il tapiro Vargas, eroe per una notte e brocco clamoroso per il resto dell’anno. Tuttavia, la palma del migliore (?) bidone dell’ultimo decennio va a lui: José Ernesto Sosa. Faccia da scolaretto sul sei-sei e mezzo, tatuaggio sul collo da giovanotto del supermercato, il nostro eroe si presentò come “principito” sulla scorta di tre anni passati al Bayern di Monaco e la nomea di talento incompreso, che ben presto mutò in comprensibilissima fregatura. Trentuno presenze tra campionato e coppe, decine di sontuose dormite sulla linea mediana ed un solo gol, segnato quasi per caso e festeggiato con un’espressione incredula, manco fosse stato il figlio di don Mimì ‘o pizzajuolo dopo aver risolto di tacco la sanguinosa sfida contro i rivali della trattoria “Add’o fetente”. Trasformato prontamente da “principito” in “uallarito”, fu aiutato dalla protezione civile a fare le valigie verso lidi meno esigenti con i trequartisti narcolettici dell’emisfero australe. Detto ciò, restiamo comunque fiduciosi nel mercatino di riparazione e nelle sorprese che potranno riservarci i nuovi arrivati, mentre, nel frattempo, ci consoliamo con la partenza di Aronica, nella speranza che Aurelione nostro non ci riservi le mirabilie di cui in precedenza, altrimenti quella cosa tricolore che non si può nominare, nun ‘a verimmo cchiù manco c’o cannocchiale! Perciò presidè, stammoce accorti!
La leggenda narra dei riti voodoo di Ferlanio e Juliano che schiattavano il bambolotto Diego dentro una fetta di casatiello. Sfogliatelle, parmigiane e mozzarelle assicurarono Careca, Alemao, Zola, Fonseca e qualche colpo minore, ma sempre ben assestato. Con l’apertura delle frontiere, anche sotto il Vesuvio la situazione degenerò, complice una società alla deriva. Arrivarono così innumerevoli calciatori o sedicenti tali, molti dei quali stranieri, che ingurgitarono tonnellate di pizza lasciando i tifosi napoletani a desinare con il loro stesso fegato. Fra i primi, forse più meteora che bidone, menzion d’onore per Freddy Eusebio Rincon (il cui banale soprannome la vostra fantasia malata ha sicuramente già immaginato), fresco reduce dalla fallimentare spedizione colombiana ai mondiali, ricordato per i suoi errori clamorosi sottoporta, per la sua inimitabile capacità di dribblare se stesso. Ciononostante, il sudamericano riuscì ad insaccare la porta ben 7 volte (li mortè!) nell’unica stagione passata da queste parti, al punto che il vero colpo alla fine lo fece il Napoli, rivendendo il nostro eroe addirittura al Real Madrid. Pare che anche in quell'occasione ficcarlo in un cartone con la scritta Sony abbia funzionato. Un paio d'anni dopo, il Napoli andò a pescare due perle direttamente in Brasile: Beto e Caio. Evidentemente arrivarono ancora ricoperte delle loro goffa ostrica. Sorvolando sul primo, che forse non ebbe modo di esprimersi al massimo, ci piace soffermarci sul secondo: conosciuto anche come “O doutorinho”, ossia “il dottorino”, per il suo vestire elegante, Caio era capitato in Italia grazie ad uno di quei contrattoni pluriennali e multimiliardari che il geniale Moratti proponeva a chiunque toccasse un pallone in sua presenza. Dopo una stagione al limite del ridicolo all’ombra della Madunina, il Napoli pensò bene di farsene carico per un’altra annata, che lo consegna alla storia ed alla scienza come prova vivente dell'esistenza di un brasiliano intollerante alla rete, dato che riusci nell'impresa di non insaccarla neanche una volta durante la sua permanenza. Tornato a pedate nelle terga in patria, vagabondò fra il Brasile e la serie C tedesca fino a riciclarsi come modello fuori tempo massimo, a 30 anni. Gli anni successivi, fra retrocessioni e assetti societari sempre più traballanti, regalarono altri geni del calcio al Napoli. Il buon José Luis Calderon venne acquistato come fenomeno assoluto (“Il nuovo Batistuta!” titolava la Gazzetta senza specificare che si stava disquisendo del notissimo Ernesto Batistuta, ambiguo macellaio venezuelano di Piazza Carita'), ma fu rispedito infiocchettato al mittente dopo solo 4 mesi. Da par suo, si segnalò l’indomito William Prunier. Virgulto delle giovanili dell'Auxerre, che diede nomi celebri quali Eric Cantona e Basile Boli alla storia, si segnalò come grande talento, ma evidentemente nel ruolo di massaggiatore. Terzino dal passo claudicante e dall’aspetto di un 45enne, William riuscì a farsi un anno intero di vacanza tra le bellezze del golfo, brillando in quella che era la sua vera specialità, ossia rivendersi come campione a club blasonati, visto che in curriculum può vantare anche Olympique Marsiglia, Bordeaux e addirittura Manchester United! Nel frattempo, Pedros ci veniva prestato dal Parma e restituito come nuovo dopo pochi giorni, la Juve ci mollava il fenomeno Zamboni, che ancora oggi viene ricordato nelle più turpi bestemmie per un clamoroso liscio che propiziò un gol del Lecce ed un Giannini già in pensione veniva ripescato dal campionato svizzero di calcio a 5 per volontà del presto fuggitivo Mazzone. Passata la tempesta, il Napoli tentò la risalita affidandosi al blocco argentino formato da Bordi e Galletti (tredici presenze e due gol in due) per piazzare poi il profeta Zeman in panca, esiliandolo dopo aver raccolto solo 2 punti in 6 partite, e giocare la carta Edmundo, turbolento attaccante brasiliano con una fedina penale da far impallidire i rivali da San Giovanni a Teduccio fino a Coroglio, che sprofondò col Napoli in serie B regalando solo qualche gol intervallato da infortuni vari. Sugli anni in serie B ed in serie C non ci sentiamo di infierire più di tanto, vista la situazione societaria, ma vogliamo comunque ricordare un eroe dimenticato dai più: il mitico Marco Quadrini, che arrivò a Napoli a 22 anni con solo 17 partite giocate da professionista, se ne andò a 25 senza nemmeno riuscire a raddoppiare il bottino e lasciò il calcio a 27 per quello che oseremmo definire una crisi di rigetto. Senza contratto. Degli anni del presidente De Laurentiis restano tanti acquisti discutibili, molti forse avrebbero meritato di più, altri sono quasi incomprensibili, come il misterioso Chavez, sulla cui reale esistenza ancora si dibatte accesamente, l’impenetrabile Hoffer, l’insondabile italo-svede-rumeno Dumitru e il tapiro Vargas, eroe per una notte e brocco clamoroso per il resto dell’anno. Tuttavia, la palma del migliore (?) bidone dell’ultimo decennio va a lui: José Ernesto Sosa. Faccia da scolaretto sul sei-sei e mezzo, tatuaggio sul collo da giovanotto del supermercato, il nostro eroe si presentò come “principito” sulla scorta di tre anni passati al Bayern di Monaco e la nomea di talento incompreso, che ben presto mutò in comprensibilissima fregatura. Trentuno presenze tra campionato e coppe, decine di sontuose dormite sulla linea mediana ed un solo gol, segnato quasi per caso e festeggiato con un’espressione incredula, manco fosse stato il figlio di don Mimì ‘o pizzajuolo dopo aver risolto di tacco la sanguinosa sfida contro i rivali della trattoria “Add’o fetente”. Trasformato prontamente da “principito” in “uallarito”, fu aiutato dalla protezione civile a fare le valigie verso lidi meno esigenti con i trequartisti narcolettici dell’emisfero australe. Detto ciò, restiamo comunque fiduciosi nel mercatino di riparazione e nelle sorprese che potranno riservarci i nuovi arrivati, mentre, nel frattempo, ci consoliamo con la partenza di Aronica, nella speranza che Aurelione nostro non ci riservi le mirabilie di cui in precedenza, altrimenti quella cosa tricolore che non si può nominare, nun ‘a verimmo cchiù manco c’o cannocchiale! Perciò presidè, stammoce accorti!
martedì 25 dicembre 2012
Natale Pride
L'appropinquarsi del Natale è foriero di dibattiti sul mai abbastanza decantato ritorno alla tradizione. Noi, che abbiamo animo conservatore, non possiamo che sollecitare il ritorno al più autentico significato di questa festa antichissima tra le più amate al mondo.
Ma di quali tradizioni parliamo? Che sono, in una festa che vanta millenni di Storia, i pochi secoli d'adozione dell'Albero o la diffusione capillare del Presepio nel tardo settecento? Concedetecelo, ben poco. Nessuna tradizione può considerarsi più autentica della più antica, ed è questa l'unica che merita l'accurata attenzione del restauratore.
E' impossibile sapere con certezza quando sia stato celebrato il primo Natale nel mondo. Esiste però un momento storico specifico in cui esso è stato introdotto in Italia: il 219. Chi lo ha introdotto, chiederete?
Nell'insolito travestimento da Carlo Conti vi offriamo tre possibili opzioni:
A) San Pietro, il padre fondatore della Chiesa.
B) Il Papa, ideatore del cattolicesimo.
C) Un sacerdote adolescente con tendenze transessuali.
La risposta giusta è la C). Eliogabalo, imperatore romano bambino introdusse per primo la festività del 25 Dicembre. Si trattava della festa del Sole Nascente, di cui era sacerdote.
Si sa pochissimo della festa vera e propria. Si trattava di una processione nelle quale un carro senza auriga pareva essere guidato da una pietra nera di forma cilindrica e viveri venivano distribuiti gratuitamente. In ogni modo la gente adorava la festa che perdurò nei secoli. Si sa comunque parecchio di Eliogabalo che, nonostante venisse assassinato a diciottanni, trovò tutto il tempo di sposarsi cinque volte, sverginare vestali (antesignane di suore), intrattenere tresche con giovani aitanti, praticare la prostituzione sacra, promettere metà del suo regno a chi lo avesse provvisto di una vagina ed altre amenità che, per decenza, omettiamo.
Ci fa giocoforza immaginare il primo Natale come una versione, meno sobria, di una gay pride accompagnata da un'orgia, quantomeno culinaria.
La Storia ha mostrata davvero poca clemenza per questo imperatore, ucciso a tradimento dal cugino e dalla sua guardia privata e la cui memoria storica fu insozzata da una storiografia calunniosa e denigratoria che avrebbe fatto impallidire anche Sallusti.
Nei secoli la scarsa affezione per la tradizione di "certi ambienti progressisti" ha condotto a tenere pochi degli elementi introdotti da Eliogabolo, come lo scambio di doni, l'abbondanza di cibo e la vergine che resta in cinta; mentre il resto è caduto un po' in disuso. L'adorazione per il cilindro nero che rappresentava il Sole è stata sostituita dal culto di quadratini di plastica colorati che contengono il Soldo.
Noi, spesso accusati di essere reazionari, ci riteniamo soltanto dei sani tradizionalisti che vorrebbero rivedere un po' più d'integro spirito natalizio. Il nostro animo realista e pragmatico ci impedisce di proporre un secondo gay pride il 24 Dicembre e di adottarne come simbolo un oggetto cilindrico nero. Siamo consci, che uomini in gonnella ammalati di protagonismo mal sopporterebbero di dividere il palco con i gay.
Notiamo però che l'adozione di Eliogabalo nel presepe o sull'albero sarebbe un gradito omaggio postumo e, quanto mai tardivo, per colui che introdusse il Natale in Italia e quindi in tutto l'Occidente. Siamo certi che a lui sarebbe piaciuto trovare la sua effigie in un pastorello ambiguo accanto alla mangiatoia o magari in un angelo transgender impiccato sull’albero assieme gli altri.
lunedì 17 dicembre 2012
Aridatece Mario!
In questi giorni volgono al termine le ennesime serie di “Squadra Antimafia” e “RIS”,che fanno il paio con le “Squadre” e i “Distretti di polizia” del passato. Azione, intrighi, ogni tanto qualche zizza e, soprattutto, sparatorie a profusione, fanno di queste serie un must per chi passa le sue serate a casa. Le trame sono una continua lotta tra il bene e il male e proprio gli scontri a fuoco si contrappongono ai lieti finali che (quasi) sempre chiudono le singole puntate. Ecco, proprio di questo vogliamo parlarvi. Prendiamo una scena qualunque di una di queste fiction ed esaminiamo la fase della sparatoria: il boss in persona, coi suoi più stretti collaboratori, in pieno giorno, giacca e cravatta, fa irruzione con camminata decisa in un luogo qualunque, MA……ad un certo punto intervengono le forze dell’ordine, che avevano capito tutto, e parte una carneficina da antologia. Innanzitutto tutti i malviventi, in rigoroso completo della festa e con una misera rivoltella in mano, sono stati addestrati in campi talebani perché, ad ogni colpo sparato, corrisponde almeno un morto tra le forze dell’ordine. Dal canto loro i poliziotti, pur scaricando coi loro mitra una riserva di munizioni buona per una riedizione del Vietnam, non riescono a colpire nessuno, fatti salvi un paio di sgherri minori di importanza pari a zero ma, soprattutto, vengono trapassati da proiettili come se i loro caschi e giubbotti antiproiettile fossero di ricotta. Nella prima puntata,possibilmente, uno dei colpiti a morte è un protagonista storico della serie,mentre almeno un altro viene sparato in testa, va in coma e, ammesso che non ci passi tutte le puntate per risvegliarsi all’ultima, diventa il cliffhanger per la stagione successiva. Non una lacrima o uno strepito sui morti non protagonisti, neanche la possibilità di una vaga agonia, tutti morti sul colpo, nessun funerale e, in generale, l’oblio quasi istantaneo. Poco pathos, dunque,e pochissimo dialogo tra i protagonisti, se si esclude il piagnisteo finale della prima puntata. Ma questo a noi non va bene. Noi siamo stati abituati in un altro modo, a noi piaceva Mario Merola. Come dice il poeta: "la penna ferisce piu' della spada". Mario, inconsapevole fautore di questa massima, ha sempre lasciato che fosse la sua favella a colpire prima e meglio del mitico papagno a mano aperta.
Nei film del mito intramontabile non c'è lotta che non sia annunciata da sguardi astiosi ed interminabili ed obnubilanti discorsi di mezz’ora su valori universali quali l’onore,il rispetto e il buon nome della famiglia. Il malamente e' colpito dell'umiliazione pubblica d'essere messo all'indice da Mario, soffre nell'udire le sue canzone strappalacrime e muore a causa della sua incapacita' di piangere. I proiettili, forti delle iastemme di Mario, possono compiere tutti i prodigi necessari all'eliminazione del malamente. Essi sono quasi lanciati dalla pistola del mitico Mario che la brandisce come fosse un martello e spara come se stesso accoltellando qualcuno. Ovvero accompagnando il proiettile col movimento della sua mano ed incattivendo il colpo con la sua migliore espressione di odio bovino. I proiettili, a quel punto, sono pronti a tutto. Sfidano l'oscurità', viaggiano per km, aggirano gli angoli e uccidono sempre l'avversario di Mario.
In pochi hanno saputo riconoscere la grandezza espressiva dello stile di Mario. Ricordiamo, tra gli intramontabili, I “Cavalieri dello zodiaco” che univano alle discussioni interminabili un'ignoranza in mitologia che avrebbe potuto imbarazzare anche Lui.
Ma il meglio dell'ermeneutica da sceneggiata pugnace, lo si raggiungeva con Mario vittima dell’agguato. La scena del ristorante di “Serenata calibro 9” è uncapolavoro assoluto: prima la festa (‘a comunione d’o piccirillo), poi Mario viene invitato a cantare una canzone (e chi se l'aspettava), quindi irrompono sulla scena i criminali mascherati, (ahimé alla fine dell'esecuzione) sparano all'impazzata e fuggono con una capriola degna del miglior Klaus Dibiasi. Il capolavoro finale è bello che servito, con nuova canzone strappalacrime cantata dal Nostro, mentre abbraccia moglie e figlio, uniche vittime di una sparatoria da 568 colpi. Il sentimento, appunto, ed anche il piagnisteo. Il tutto condito da quell'irrealta' palpabile, dalle canzoni a fronna ‘e limone, dove nessuno muore senza avere prima il tempo di un ultimo struggente addio. Struggimento contro effetti speciali, finzione scenica contro realtà. Se volevamo la realtà mica la accendevamo la TV?
Le vette inimitabili meroliane purtroppo non sono state più raggiunte. L’erede designato Gigi D’Alessio, dopo aver minacciato di morte Giorgio Mastrota in “Cient’anne”, ha virato cambiando genere e il buon Karim Capuano ne “Il latitante” è riuscito a smuovere il nostro sentimentalismo solo dal piloro in giù. Come si pretende allora che ci si possa affezionare a delle fiction veloci e ricche di azione? Impossibile! Dateci fermo immagine lunghissimi, lunghi monologhi vis-à-vis in salsa truce, canzoni disperate con vibrati forti al punto da far scattare i sismografi esaremo tutti incollati davanti alla vostra fiction. Insomma, aridatece Mario Merola…
Nei film del mito intramontabile non c'è lotta che non sia annunciata da sguardi astiosi ed interminabili ed obnubilanti discorsi di mezz’ora su valori universali quali l’onore,il rispetto e il buon nome della famiglia. Il malamente e' colpito dell'umiliazione pubblica d'essere messo all'indice da Mario, soffre nell'udire le sue canzone strappalacrime e muore a causa della sua incapacita' di piangere. I proiettili, forti delle iastemme di Mario, possono compiere tutti i prodigi necessari all'eliminazione del malamente. Essi sono quasi lanciati dalla pistola del mitico Mario che la brandisce come fosse un martello e spara come se stesso accoltellando qualcuno. Ovvero accompagnando il proiettile col movimento della sua mano ed incattivendo il colpo con la sua migliore espressione di odio bovino. I proiettili, a quel punto, sono pronti a tutto. Sfidano l'oscurità', viaggiano per km, aggirano gli angoli e uccidono sempre l'avversario di Mario.
In pochi hanno saputo riconoscere la grandezza espressiva dello stile di Mario. Ricordiamo, tra gli intramontabili, I “Cavalieri dello zodiaco” che univano alle discussioni interminabili un'ignoranza in mitologia che avrebbe potuto imbarazzare anche Lui.
Ma il meglio dell'ermeneutica da sceneggiata pugnace, lo si raggiungeva con Mario vittima dell’agguato. La scena del ristorante di “Serenata calibro 9” è uncapolavoro assoluto: prima la festa (‘a comunione d’o piccirillo), poi Mario viene invitato a cantare una canzone (e chi se l'aspettava), quindi irrompono sulla scena i criminali mascherati, (ahimé alla fine dell'esecuzione) sparano all'impazzata e fuggono con una capriola degna del miglior Klaus Dibiasi. Il capolavoro finale è bello che servito, con nuova canzone strappalacrime cantata dal Nostro, mentre abbraccia moglie e figlio, uniche vittime di una sparatoria da 568 colpi. Il sentimento, appunto, ed anche il piagnisteo. Il tutto condito da quell'irrealta' palpabile, dalle canzoni a fronna ‘e limone, dove nessuno muore senza avere prima il tempo di un ultimo struggente addio. Struggimento contro effetti speciali, finzione scenica contro realtà. Se volevamo la realtà mica la accendevamo la TV?
Le vette inimitabili meroliane purtroppo non sono state più raggiunte. L’erede designato Gigi D’Alessio, dopo aver minacciato di morte Giorgio Mastrota in “Cient’anne”, ha virato cambiando genere e il buon Karim Capuano ne “Il latitante” è riuscito a smuovere il nostro sentimentalismo solo dal piloro in giù. Come si pretende allora che ci si possa affezionare a delle fiction veloci e ricche di azione? Impossibile! Dateci fermo immagine lunghissimi, lunghi monologhi vis-à-vis in salsa truce, canzoni disperate con vibrati forti al punto da far scattare i sismografi esaremo tutti incollati davanti alla vostra fiction. Insomma, aridatece Mario Merola…
mercoledì 28 novembre 2012
Ode all'errequattro
Napoli è una città ricca di mistero, di esoterismo e di altre cose quequere di varia forgia. La cappella Sansevero col suo Cristo Velato è uno dei simboli della Napoli occulta, come la chiesa delle cape di morto e la grotta di Maria Cristina. Un simbolo evidente del rapporto dell’antica partenope col mistero è tuttavia sottovalutato. Nulla al mondo può competere con l’alone di mistero che circonda questa entità, ne regola le funzioni vitali e ne gestisce la manutenzione. Stiamo parlando dell’errequattro. Si, proprio di un pullman. Tutti gli autobus di questo mondo prima o poi si scassano, saltano qualche corsa o vengono bloccati da un evento inaspettato. Tutti. Ma uno solo di loro in tutto il pianeta può subire ognuno di questi imprevisti almeno tre volte al giorno per tutta la sua vita utile: l’errequattro. Non esiste manifestazione, concerto o inaugurazione di negozio di abbigliamento che si svolga in centro, che non comporti l’improvviso blocco delle corse del nostro eroe. Erreuno, duecentouno e tutti i loro colleghi continuano a passare , seppure a singhiozzo, ma lui no. Finisce fermo chissà dove e non si muove più. Ma l’errequattro ha un’altra caratteristica peculiare: sparisce. Sparisce nel senso che davvero non si trova più, non si sa che fine faccia. Tu lo vedi bellino e stracolmo (e ci credo, non passava da sei ore) che se ne scende per Via Toledo, ti aspetti di trovarlo che risale per Via S. Anna dei Lombardi e invece no, nel giro per Via Medina lui sparisce inghiottito da qualche buco nero e non risale più, lasciandoti a piedi in omnia saecula saeculorum. Non c’è ancora una teoria scientifica accreditata che possa spiegare il fenomeno e pare che nemmeno la chiamata a “Chi l’ha visto”abbia fornito i risultati sperati. Tuttavia, il mistero ci affascina e, così come Giulio Verne fu rapito dal mito di Atlantide inghiottita dal mare e ne scrisse a riguardo, anche noi abbiamo voluto omaggiare il mito dell’errequattro inghiottito da Piazza Bovio ed abbiamo voluto dedicargli questa ode.
Un giorno, del pericolo sprezzante,
decisi di recarmi a Piazza Dante.
Pensai “già che ci sono e che sto qua”
Mi allungo fino a piazza Carità
Recammi lesto presso la fermata
Convinto di un’attesa risicata
Cercavo all’orizzonte l’errequattro
Speravo comparisse quatto quatto
Ma dopo una mezz’ora d’inazione
avendo ormai imparato la lezione
in barba ad anni d’inattività
Con Gambe in spalla, presi a camminar
E mi avviai con faccia tetra e scura
percorso da rimorsi e da paura
Credetti d’essere preda di magia
Trovare il bus divenne mia mania?
Raggiunta la mia meta in tardo orario
Coi piedi in fiamme e il culo refrattario
Decisi di tornare stanco morto
Sperando ancor nel mezzo di trasporto
Percorsi pochi metri a passi forti
Ed intravidi a piazza Matteotti
Un erre quattro pieno a scatoletta
diretto a piazza Bovio senza fretta
Pensai, povero illuso, “lo intercetto!”
“Mi faccio il giro lungo e poi risalgo”
Mi ridestai “è meglio se lo aspetto”
“dall’altra parte vado e me lo prendo ”
A correr disperato mi affannai
Tagliando verso Via Monteoliveto
Sperando di evitare gli altri guai
E almeno che a salire fosse voto
Pronto a ogni possibile evenienza
Mi riscaldai sgranchendomi le mani
E mi misi in posizione di partenza
Nemmeno fossi ai cento metri piani
Dopo qualche minuto in vana attesa
Assieme a una signora con la spesa
Mi avventurai all’incrocio a Via Medina
nel mezzo della giungla cittadina
Ma quale sortilegio mi ha colpito?
Mi chiedo, il pullman dove sia finito?
Che ci sia un varco interdimensionale
O un fosso, una voragine stradale?
Quell’errequattro porco e maledetto
Perduto si era a Piazza Municipio
“adesso me ne vado”, uno mi ha detto
invece io non mi muovo per principio
Anzi, ci ripenso, e ora mi sposto
E gli sovvengo incontro in senso opposto
Per questo mi giurai“comunque vada
Lo trovo e lo riporto alla sua strada”
Purtroppo non ci fu nulla da fare
Dopo mezz’ora smisi di girare
Quel bus era svanito in pieno giorno
Lasciandomi anche a piedi pel ritorno
Provai ad informarmi:“Brigadiere?”
“Per caso un errequattro avete visto?”
“Guagliò tu tieni voglia di pazziare,
guardate che domande me fa chisto”
Cercai con il supporto della scienza
Le cause di cotanta sparizione
Mi misi ad indagare con pazienza
Cercando qualche manifestazione
Speravo infatti che i disoccupati
Avessero bloccato qualche via
Sognavo gli errequattro parcheggiati
Indietro a scioperanti e polizia.
Invece nulla, manco un dissidente
Nemmeno una voragine sul posto
soltanto qualche cicinquantasette
che sale per Via Roma di nascosto.
Ormai sarà passato qualche anno
E ancora non ho pace per quel giorno
Mi fanno male i piedi a mo’pe’ tanno
Ormai non giro più per lloco attuorno
Un tarlo grande come il garittone
Contorce la mia mente ogni due ore
Ti prego, ora rispondimi erre quattro:
Quel giorno tu che cazzo ‘e fine hai fatto?
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mercoledì 21 novembre 2012
Primarie del PD
Cari amici,
Detto ciò, contiamo sul vostro senso civico, sulla vostra coscienza e sulla fiducia che ognuno di noi e di voi pone nel singolo candidato, allo scopo di poter operare una scelta coerente e sicura in vista delle elezioni politiche. E mi raccomando, scegliete bene, avessema fà ca pure stavota 'e primarie d'o Pd 'e vvence Berlusconi?
La dirigenza del PD si è raccomandata di proporvi un sunto delle caratteristiche salienti dei cinque candidati alle primarie del PD.
Si tratta di una scelta difficile perché al vincitore toccherà il delicato compito di sostenere Monti per altri cinque anni. Quindi vi vogliono preparati.
Cominciamo da Perluigi Bersani. Questo qui è quello che deve vincere. Mettevi una mano sulla coscienza che noi i manifesti elettorali col suo faccione li abbiamo già stampati. E e poco importa se quando sorride somiglia a Gargamella. In caso di vittoria alle primarie Bersani ha alte possibilità di riuscire anche alle elezioni. Gli alti papaveri del PD hanno infatti notato che negli anni scorsi il pelato ha sempre sfondato. Ha molto nociuto alla sua immagine politica una sua foto in cui prendeva un birra da solo. Solo perché non si vede Renzi col grembiulino che gliela serve. Ha iniziato la sua campagna promettendo un grande rinnovamento fra i suoi collaboratori: trombata la giubilata Birba, escluso grande Puffo a causa di vecchie ruggini, si fanno i nomi di John e Solfamì. La sua promessa elettorale più importante in caso di vittoria è la liberazione da D’Alema. Al momento non è dato sapere chi, fra 5 anni, si farà carico della liberazione da Bersani.
Matteo Renzi si propone come il grande rinnovatore. Si vanta di essere il nuovo che avanza ma in molti gli contestano d’essere il vecchio che è avanzato. Sfoggia un zoccolo durissimo di quasi un milione di sostenitori che sarebbero disposti a qualsiasi cosa purché venga eletto a leader del PD. Si tratta dei fiorentini, che venderebbero la madre pur di non averlo come sindaco. Renzi vuole voltare pagina con idee innovative e giovani. Queste gli sarebbero state suggerite, in incontri segreti, da Berlusconi e svariati vecchi tromboni della Finanza. La promessa elettorale più grande di Renzi è attirare elettori di Grillo e del PdL sparandole ancora più grosse. Lo so, sembra incredibile anche a noi. Andasse male il grembiulino gli dona.
Nichi Vendola, rispetto agli altri, parte svantaggiato. Appartiene ad una categoria sociale alla quale l’opinione pubblica associa una bassa moralità, una scarsa affidabilità ed una generale ambiguità. Parliamo, ovviamente, dei Baresi.
Unico uomo al mondo in grado di ordinare un “prodotto discoidale a lievitazione naturale con condimento di polpa di solenacee, latticini a pasta filata e profumazione a mezzo pianta erbacea di tipo annuale” al posto di una margherita.
Celeberrimi i suoi comizi poetici ed arditi che ricordano ai più gli immortali interventi dei grandi oratori della classicità latina. Difatti i suoi cavalli di battaglia sono: linguaggio incomprensibile e temi-antidiluviani. Il suo eloquio ricorda vagamente la perifrastica passiva, nessuno capisce di cosa si tratti, ma vige il tacito accordo di fingere d’aver compreso. La promessa simbolo di Vendola sono i matrimoni gay, o almeno questo è quello che abbiamo capito.
Bruno Tabacci, per chi non lo sapesse, è l’altro pelato su cui puntare. Che non si dica che il Pd non ha un strategia vincente. E’ uno dei pochissimi politici che è uscito pulito da Tangentopoli. Ha dovuto nascondere questa macchia per farsi eleggere con l’UDC. Tabbaci ha militato in DC, CCD-UDC, Casa della Libertà e si è perfino riuscito ad alleare con l’API di Rutelli nelle sue due ore di vita ed ora è finito col PD. Il rifiuto del Partito dell’Amore e dell’Unione dei Pensionati gli ha impedito di fare il centro perfetto, con grande rammarico da parte di Cicciolina.
La promessa simbolo di Tabacci è di non fare nulla e continuare a sostenere Monti per altri cinque anni. Quindi, visto che uno vale l’altro, perché non lui?
Laura Puppato: chi era costei? Ecologista e donna pingue, rappresenta sostanzialmente ogni forma di quota rosa, sia in senso femminile che suino. Noi ne siamo grandi fan ed indi eviteremo ogni battuta sul suo nome. Il programma politico della Puppato ruota intorno ad un incremento della green economy: l’economia verde. Ad ogni modo noi non ci illudiamo che l’Italia possa essere più al verde di così.
Le proposte della Puppato sono interessanti, realistiche e migliori di quelle di molti degli altri candidati. Saremmo lieti di spiegarvele ma chi volete che la voti?
Detto ciò, contiamo sul vostro senso civico, sulla vostra coscienza e sulla fiducia che ognuno di noi e di voi pone nel singolo candidato, allo scopo di poter operare una scelta coerente e sicura in vista delle elezioni politiche. E mi raccomando, scegliete bene, avessema fà ca pure stavota 'e primarie d'o Pd 'e vvence Berlusconi?
mercoledì 14 novembre 2012
Sepsa, drugs and rock'n roll
La metropolitana di New York ha quasi 370 km di tracciato e
26 linee che la compongono; quella di Londra addirittura 460 per 13 linee e
serve miliardi di passeggeri ogni anno con elevatissima frequenza delle corse,
quella di Napoli ha 6 linee esistenti e 4 in costruzione (almeno in teoria) ed
un numero imprecisato di stazioni e chilometri di sviluppo, che cambiano ogni
giorno, in funzione dei resti romani che vengono scoperti nel sottosuolo. In
pratica, troppi galli a cantà e nun schiara mai juorno…..in questi giorni,
l’indice è puntato su Cumana, Circumflegrea e Circumvesuviana, vittime di
ritardi, guasti a ripetizione, scioperi a sorpresa, deragliamenti e altri
disastri, che rendono il loro (dis)servizio una continua sorpresa. Ma se Sparta
piange, Atene non ride e così anche il trasporto su gomma è l’equivalente
a 4 ruote della pietà del Michelangelo. La
realtà è che non si sa nemmeno bene la colpa di chi sia: Sepsa, Circumvesuviana,
EAV, Metronapoli e Comune, si rimpallano le responsabilità dei disservizi e,
soprattutto, sono tutti senza l’ombra di un quattrino. La Comunità Europea,
conoscendo i suoi polli, ci pensa mille volte prima di erogare qualsivoglia
finanziamento e così autobus e treni rotti finiscono parcheggiati nelle
rimesse, perché mancano i soldi anche per i ricambi più piccoli. Come fare
allora per risollevare le sorti del sistema di trasporto su gomma napoletano? La
soluzione ce l’abbiamo noi: sublimiamolo, surroghiamolo, anzi: ELIMINIAMOLO!
Come dite? Un attimo, un attimo, lasciateci almeno il tempo di spiegare. Avete presente
il nostro amico Vesuvio?
Ecco, immaginate una bella eruzioncina di quelle simpatiche e osservate bene la lava come scende a valle, sfruttando la forza di gravità e scegliendo sempre la strada più agevole. Ecco, il nostro nuovo sistema di trasporto pubblico dovrebbe essere come quella colata lavica. Mettiamo il nostro bel “cratere” (chiamiamolo così, in modo da far vedere che siamo bravi anche col marketing) dove c’è il Cardarelli, e trasformiamolo in un enorme stazionamento di rollerblade collettivi (minimo 10 posti). Si, esatto, proprio i rollerblade, nati per sfruttare l’abbrivio dato dalle pendenze e lanciare i napoletani giù in posizione aerodinamica verso il lungomare. Mettiamola così: vi trovate in zona rione alto e dovete andare al lavoro a Piazza Carlo III. Invece di prendere la macchina o sudare 77 camicie alla ricerca del pullman perduto, vi fate quei 200 metri a piedi, calzate il vostro rollerblade comunitario guidato dai sapienti ex-autisti ANM addestrati all’uso, e vi lanciate come Tomba giù per i Colli Aminei, quindi per i Ponti rossi (qua il tracciato si fa tecnico) e, in pochi minuti e dopo aver allenato il vostro fisico, sarete seduti dietro la vostra scrivania. E poi, dal Cardarelli potrete arrivare al Vomero, a Chiaiano, Marianella, Piscinola, al Centro e, se vi va di fare un po’ di mezzofondo, anche a Fuorigrotta e Posillipo. Ecco, proprio a Capo Posillipo potremmo piazzare un “cratere” che consenta all’utenza di raggiungere il lungomare, Bagnoli, Coroglio, mentre la parte est della città con Stazione, Aeroporto, Cimitero e zona industriale, verrebbe coperta dal “cratere” di Piazza Capodichino, mentre Pianura, Soccavo e zone limitrofe sarebbero servite dal cratere dell’eremo dei Camaldoli. Come finanziare il progetto, direte voi. Bene, prendiamo tutti i pullman in circolazione e vendiamoli. Si, vendiamoli, tanto non serviranno più, e monetizziamo il più possibile. Con quei soldi, prendiamo una bella area dismessa della zona industriale, e ci impiantiamo una fabbrica municipalizzata di rollerblade (anche singoli, per stimolare la mobilità sostenibile presso i cittadini) da rivendere anche all’estero, una volta lanciata con successo l’idea. Il personale avanzato dalla riconversione verrebbe istruito a guidare i rollerblade di massa, a fare manutenzione e eventualmente spostato in fabbrica, quindi non si perderebbero posti di lavoro. Anzi! I siffatti rollerblade non sono certo facili da guidare, e le discese di Napoli hanno i loro bei punti critici. Questo diverrebbe lavoro per le imprese edili, impegnate a costruire chicane di rallentamento un po’ ovunque, e per le imprese funebri, impegnate a smaltire i resti di chi ci è rimasto nei tornanti di Via Morghen. E poi, la selezione naturale operata dai curvoni di Via Tasso, significherebbe molto lavoro per ospedali, policlinici universitari, medici generici e specialisti, schiattamuorti e, soprattutto, tanti nuovi contratti a giovani disoccupati che andrebbero a sostituire chi non ce l’ha fatta. Quando il costo del biglietto avrà ripagato le spese iniziali, si potrebbe addirittura mettere in pratica l’intermodalità del trasporto pubblico, installando dei punti di partenza per deltaplani collettivi a S. Martino, Capodimonte ed a Via Caldieri, con tutto il cratere dei Campi Flegrei a disposizione per chi al lavoro vuole andarci godendosi il panorama. Tutto ciò, senza pensare alla possibilità di rivendere ai turisti più spericolati un tour fenomenale e agli utenti abituali che necessitano di fermate intermedie, dei fantastici paracadute monouso rigorosamente municipali. Tutto, ovviamente, da costruire, manutenere e gestire autarchicamente nel capannone affianco a quello dei rollerblade, più semplice di così……
Come
dite? Come facciamo a ritornare a casa dato che c’è la salita? Beh, capisco l’entusiasmo,
ma non esagerate adesso, in fondo vi abbiamo già risolto il problema dell’andata....Ecco, immaginate una bella eruzioncina di quelle simpatiche e osservate bene la lava come scende a valle, sfruttando la forza di gravità e scegliendo sempre la strada più agevole. Ecco, il nostro nuovo sistema di trasporto pubblico dovrebbe essere come quella colata lavica. Mettiamo il nostro bel “cratere” (chiamiamolo così, in modo da far vedere che siamo bravi anche col marketing) dove c’è il Cardarelli, e trasformiamolo in un enorme stazionamento di rollerblade collettivi (minimo 10 posti). Si, esatto, proprio i rollerblade, nati per sfruttare l’abbrivio dato dalle pendenze e lanciare i napoletani giù in posizione aerodinamica verso il lungomare. Mettiamola così: vi trovate in zona rione alto e dovete andare al lavoro a Piazza Carlo III. Invece di prendere la macchina o sudare 77 camicie alla ricerca del pullman perduto, vi fate quei 200 metri a piedi, calzate il vostro rollerblade comunitario guidato dai sapienti ex-autisti ANM addestrati all’uso, e vi lanciate come Tomba giù per i Colli Aminei, quindi per i Ponti rossi (qua il tracciato si fa tecnico) e, in pochi minuti e dopo aver allenato il vostro fisico, sarete seduti dietro la vostra scrivania. E poi, dal Cardarelli potrete arrivare al Vomero, a Chiaiano, Marianella, Piscinola, al Centro e, se vi va di fare un po’ di mezzofondo, anche a Fuorigrotta e Posillipo. Ecco, proprio a Capo Posillipo potremmo piazzare un “cratere” che consenta all’utenza di raggiungere il lungomare, Bagnoli, Coroglio, mentre la parte est della città con Stazione, Aeroporto, Cimitero e zona industriale, verrebbe coperta dal “cratere” di Piazza Capodichino, mentre Pianura, Soccavo e zone limitrofe sarebbero servite dal cratere dell’eremo dei Camaldoli. Come finanziare il progetto, direte voi. Bene, prendiamo tutti i pullman in circolazione e vendiamoli. Si, vendiamoli, tanto non serviranno più, e monetizziamo il più possibile. Con quei soldi, prendiamo una bella area dismessa della zona industriale, e ci impiantiamo una fabbrica municipalizzata di rollerblade (anche singoli, per stimolare la mobilità sostenibile presso i cittadini) da rivendere anche all’estero, una volta lanciata con successo l’idea. Il personale avanzato dalla riconversione verrebbe istruito a guidare i rollerblade di massa, a fare manutenzione e eventualmente spostato in fabbrica, quindi non si perderebbero posti di lavoro. Anzi! I siffatti rollerblade non sono certo facili da guidare, e le discese di Napoli hanno i loro bei punti critici. Questo diverrebbe lavoro per le imprese edili, impegnate a costruire chicane di rallentamento un po’ ovunque, e per le imprese funebri, impegnate a smaltire i resti di chi ci è rimasto nei tornanti di Via Morghen. E poi, la selezione naturale operata dai curvoni di Via Tasso, significherebbe molto lavoro per ospedali, policlinici universitari, medici generici e specialisti, schiattamuorti e, soprattutto, tanti nuovi contratti a giovani disoccupati che andrebbero a sostituire chi non ce l’ha fatta. Quando il costo del biglietto avrà ripagato le spese iniziali, si potrebbe addirittura mettere in pratica l’intermodalità del trasporto pubblico, installando dei punti di partenza per deltaplani collettivi a S. Martino, Capodimonte ed a Via Caldieri, con tutto il cratere dei Campi Flegrei a disposizione per chi al lavoro vuole andarci godendosi il panorama. Tutto ciò, senza pensare alla possibilità di rivendere ai turisti più spericolati un tour fenomenale e agli utenti abituali che necessitano di fermate intermedie, dei fantastici paracadute monouso rigorosamente municipali. Tutto, ovviamente, da costruire, manutenere e gestire autarchicamente nel capannone affianco a quello dei rollerblade, più semplice di così……
(Illustrazione a cura di Daniele Rossi. Per Info: kt-s@hotmail.it)
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domenica 4 novembre 2012
Candele, candelotti e sei lumini….
Napoli è la città del sole, la città dell’allegria, del
folklore e di tante altre amenità che non stiamo qui ad elencarvi per paura di
finire in un quadretto con pizza, camorra e mandolino. Da queste parti non si
può parlare di morte, è un argomento tabù al pari dell’ultima sconfitta del
Napoli, un discorso da cui sfuggire con tutte le proprie forze, la principale
causa di orchite di tutta la provincia. Tuttavia, quando alla fine subentra, se
ne celebra la grandezza in ogni maniera. Ovviamente, nel trionfo del trapasso, l’impronta
partenopea non può mancare, sotto forma di quella cifra stilistica sobria e
misurata che lo contraddistingue, quella pennellata di pochi millimetri,
piccola e discreta, che rovina un quadro di 25 metri quadrati. Ecco che allora,
affianco a poetici manifesti mortuari con epitaffi scritti con la mano sinistra
da un ubriaco, proliferano sontuose cappelle cimiteriali in stile
tardogotico-nazionalpopolar-futurista il cui proprietario, ancora in vita, rivaleggia
in sanguinose competizioni coi colleghi di pari grado, combattendo con la
stessa foga che si utilizzava alla scuole medie per primeggiare quanto a
dimensioni del pisello. In una sorta di morra cinese in salsa funebre, i due
proprietari si sfidano con colpi proibiti ed a sorpresa: una statua del santo
patrono batte il puttino, ma se il puttino è dorato vince, battendo anche il
vaso di ceramica di Capodimonte, che sconfigge i vasetti di plastica, ma
soccombe alla fioriera in ferro intarsiato, che viene battuta a sua volta da un
ritratto giovanile del defunto (possibilmente più magro del reale), il quale
perde con la bandiera del Napoli issata sul pennone, ma batte il lampadario in
cristallo di Torrescazzetta appeso al centro della stanza. Preambolo alla
sepoltura in una bara con serigrafato il golfo di Napoli ripreso da Via
Petrarca è il funerale. Alle scene isteriche delle parenti del defunto, che si dibattono
disperate coprendo coi loro urli persino le sirene della contraerea, fanno da
contraltare i ridolini di chi chiude il corteo inciuciando a colpi di pagaia,
cercando con un kayak di non soccombere al tipico fiume di lacrime in piena.
Particolarmente apprezzata è la carrozza funebre, specie se dotata di cavalli
(rigorosamente a coppie, più ne sono e più è alto il rango del defunto), meglio
ancora se ammaestrati ed in grado di compiere evoluzioni coordinate sbattendo
gli zoccoli a terra per richiamare l’attenzione di chiunque si trovi nei
paraggi dell’evento. Nei migliori vasci dell’antica Partenope, ancora oggi si
trovano dei veri e propri tempietti votivi, di solito allocati vicino ad uno
specchio (chissà perché), generalmente nelle camere da letto patronali, dove
dei finti lumini acquistati a prezzi modici su QVC, illuminano con luce
sinistra delle foto ormai scolorite di parenti forse mai conosciuti (e forse
mai morti), amici, conoscenti ed ogni altra persona di cui sia stato possibile
reperire un’immaginetta ricordo, di quelle che vengono definite “figurelle”. Le
figurelle costituiscono l’oggetto della variante femminile della morra cinese
di cui sopra, diventano materia di collezioni ossessive da parte delle più
rinomate capere, che si sfidano a colpi di “ce l’ho, ce l’ho, mi manca”. In
questa sanguinosa guerra, i reciproci parenti, essendo di facile reperibilità
per gli sfidanti, non hanno grande valore, ma sono la principale causa di
strascini fra le contendenti, impelagate di solito in polemiche di natura
dinastica, generate dal fatto che a Napoli si tendono a considerare parenti i
tre quarti della popolazione locale. Tra i non parenti, contano molto i
negozianti della zona, in particolare macellai e salumieri e non vi dico se nel
quartiere c’è un gioielliere o, meglio ancora, un pluripregiudicato. L’età del
morto è inversamente proporzionale al valore della figurella: più giovane è il
defunto, più pregiata ne è l’immagine, ma non vale l’utilizzo di foto vecchie
di 35 anni o ritoccate, né il fatto che il morto dichiarasse un’età inferiore a
quella reale.
La catarsi del culto della morte raggiunge il suo acme mistico e grottesco nel misconosciuto cimitero delle fontanelle. Un gigantesco ossario che riunisce morti senza nome della peste, del colera e di varie follie dei secoli scorsi. Nonostante il posto sia spaventoso e terribile, altro che cimitero indiano, è stato oggetto di venerazione ossessiva. Le anime senza pace dell'ossario venivano allettate da "pie" donne con lumini, preghiere ed una sistemazione consona del teschio (tipo dentro una teca). In cambio il morto doveva concedere in sogno i tanto agognati numeri del lotto, la fertilità ed eventualmente un marito decente. A giudicare dal numero di teche, pare che i teschi fossero degli insospettabili brillanti ruffiani.
Si sa che il fedele necessita di una segnale per rendersi conto che il miracolo è stato accordato. Se il rogo sacro, l'estasi divina, lo scioglimento del sangue od il classico raggio di sole possono esser per i santi canonici manifestazioni adeguate, le anime del purgatorio non potevano permettersi niente di così appariscente. Opaca lucentezza dei teschi o qualche brina di disgustoso sudore pare sia il massimo concesso. Insomma se il teschio suda o è innaturalmente lucido il matrimonio desiderato è cosa fatta. Potete anche smetterla con la ceretta.
Non è dato sapere qual era il destino riservato ai teschi avari di miracoli o che riuscivano ad arruffianarsi solo mariti fedigrafi o provvisti di suocere scassambrelle. A giudicare dalle macabre leggende che aleggiano, ci sentiamo di escludere che i teschi fossero fisicamente danneggiati. Pena ritrovarseli tutti come invitati al matrimonio con aumenti di spese da infarto. Nonostante ciò riteniamo credibile che i fedeli traditi optassero per le più nefande ed irriferibili iastemme.
Come prevedibile, anche negli insulti la morte ha il suo ruolo importante. Dire “all’anema e chi t’è mmuorto” a qualcuno, vuol dire offenderne la stirpe non più sulla terra e dare probabilmente il via ad una rissa da antologia, ma a volte non è sufficiente ad esprimere il disprezzo e l’odio che si prova verso di lui. Ecco così comparire i rafforzativi “morti ‘e chi t’è mmuorto”, che offende risalendo nel tempo gli avi dei vostri antenati, oppure “sangue e chi v’è mmuorto”, che ne mette in seria discussione le qualità organiche o ancora “chi t’è stramuorto”, che conferisce consistenza extra al decesso. Ma, così come i guerrieri concedono l’onore delle armi ai loro nemici sconfitti, anche lo jastemmatore riconosce in qualche modo il valore della stirpe dello jastemmato, precisando che le sue interiezioni sono dirette esclusivamente ai migliori elementi della famiglia, quelli veramente degni di nota. Perciò, quando vi diranno “E megli muorti e chi t’è stramuorto”, prima di sfoderare il machete e colpire a morte il vostro avversario, per un attimo commuovetevi ripensando ai vostri avi che, con la loro chiara ed imperitura fama, vi hanno concesso l’onore di poter essere selezionati per insultarvi meglio.
La catarsi del culto della morte raggiunge il suo acme mistico e grottesco nel misconosciuto cimitero delle fontanelle. Un gigantesco ossario che riunisce morti senza nome della peste, del colera e di varie follie dei secoli scorsi. Nonostante il posto sia spaventoso e terribile, altro che cimitero indiano, è stato oggetto di venerazione ossessiva. Le anime senza pace dell'ossario venivano allettate da "pie" donne con lumini, preghiere ed una sistemazione consona del teschio (tipo dentro una teca). In cambio il morto doveva concedere in sogno i tanto agognati numeri del lotto, la fertilità ed eventualmente un marito decente. A giudicare dal numero di teche, pare che i teschi fossero degli insospettabili brillanti ruffiani.
Si sa che il fedele necessita di una segnale per rendersi conto che il miracolo è stato accordato. Se il rogo sacro, l'estasi divina, lo scioglimento del sangue od il classico raggio di sole possono esser per i santi canonici manifestazioni adeguate, le anime del purgatorio non potevano permettersi niente di così appariscente. Opaca lucentezza dei teschi o qualche brina di disgustoso sudore pare sia il massimo concesso. Insomma se il teschio suda o è innaturalmente lucido il matrimonio desiderato è cosa fatta. Potete anche smetterla con la ceretta.
Non è dato sapere qual era il destino riservato ai teschi avari di miracoli o che riuscivano ad arruffianarsi solo mariti fedigrafi o provvisti di suocere scassambrelle. A giudicare dalle macabre leggende che aleggiano, ci sentiamo di escludere che i teschi fossero fisicamente danneggiati. Pena ritrovarseli tutti come invitati al matrimonio con aumenti di spese da infarto. Nonostante ciò riteniamo credibile che i fedeli traditi optassero per le più nefande ed irriferibili iastemme.
Come prevedibile, anche negli insulti la morte ha il suo ruolo importante. Dire “all’anema e chi t’è mmuorto” a qualcuno, vuol dire offenderne la stirpe non più sulla terra e dare probabilmente il via ad una rissa da antologia, ma a volte non è sufficiente ad esprimere il disprezzo e l’odio che si prova verso di lui. Ecco così comparire i rafforzativi “morti ‘e chi t’è mmuorto”, che offende risalendo nel tempo gli avi dei vostri antenati, oppure “sangue e chi v’è mmuorto”, che ne mette in seria discussione le qualità organiche o ancora “chi t’è stramuorto”, che conferisce consistenza extra al decesso. Ma, così come i guerrieri concedono l’onore delle armi ai loro nemici sconfitti, anche lo jastemmatore riconosce in qualche modo il valore della stirpe dello jastemmato, precisando che le sue interiezioni sono dirette esclusivamente ai migliori elementi della famiglia, quelli veramente degni di nota. Perciò, quando vi diranno “E megli muorti e chi t’è stramuorto”, prima di sfoderare il machete e colpire a morte il vostro avversario, per un attimo commuovetevi ripensando ai vostri avi che, con la loro chiara ed imperitura fama, vi hanno concesso l’onore di poter essere selezionati per insultarvi meglio.
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